Francesca Garaventa è prima ricercatrice presso l’Istituto per lo studio degli impatti antropici e sostenibilità in ambiente marino (IAS) del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), dove si occupa di studiare l’ambiente marino, con l’obiettivo di contribuire ad aumentare la sua conoscenza e a sviluppare metodi e strumenti per una sua più efficace protezione e salvaguardia.
Nel torneo di Sumo Science hai rappresentato il campo di ricerca delle “scienze marine”. Si tratta di una definizione molto ampia: quali discipline include? E perché è importante studiare il mare?
Le scienze marine sono un contenitore enorme, estremamente multidisciplinare: si va dalla geologia all’oceanografia fisica, fino alla biologia applicata alla conservazione delle risorse ittiche o all’ecotossicologia, che rappresenta il mio campo di ricerca in senso più stretto. Il mare per molto tempo è stato in realtà poco studiato: come dico spesso, per assurdo noi conosciamo molto di più lo spazio, con le stelle e i pianeti, piuttosto che la profondità marina. Tuttavia, negli ultimi anni la consapevolezza dell’importanza di questi di studi è aumentata, così come il valore che viene dato agli ecosistemi marini: un valore che oggi è sia strettamente naturale, legato alla loro salvaguardia, ma anche economico, turistico, industriale, sulla scia dei tanti interessi che ruotano intorno al mare. Questi tanti valori associati al mare, da un lato, garantiscono la sua tutela, ma al tempo stesso hanno anche una dark side, perché aumentano il nostro livello di controllo su di esso, come se fossimo i proprietari di questo bene che la natura ci offre.
Quanto è grande la comunità italiana dei ricercatori e ricercatrici nell’ambito delle scienze marine?
In Italia esistono diversi enti di ricerca che si occupano di scienze marine. Nell’ambito del solo CNR, gli istituti di scienze marine sono tre, con un numero di ricercatori molto elevato rispetto a quelli impegnati in altre tematiche di ricerca. Un settore particolarmente in crescita è quello della geologia marina, grazie soprattutto alle applicazioni del cosiddetto deep sea mining, ossia l’estrazione di minerali dai fondali marini, che muove anche molti interessi economici.
Su quali temi di ricerca stai lavorando in particolare?
Mi occupo soprattutto di studiare la presenza di inquinanti e i loro effetti sull’ecosistema e sugli organismi marini. In questi anni il grosso della ricerca è stato focalizzato sulla plastica, in particolare le microplastiche e le nanoplastiche. Una parte del mio lavoro consiste nel fare campagne in mare, per capire quante microplastiche ci sono e quali sono i punti di maggiore accumulo. Naturalmente queste attività di monitoraggio sono condotte anche dalle varie agenzie Arpa per la protezione ambientale, tuttavia il nostro lavoro di ricerca punta a individuare metodologie di campionamento più efficaci, in grado di individuare particelle sempre più piccole. Per capire l’importanza di queste ricerche è utile fare un esempio: lo strumento classico utilizzato per raccogliere microplastiche è una rete chiamata Manta, che viene però trainata unicamente in superficie. Noi negli ultimi anni stiamo usando dei sistemi di filtrazione dell’acqua che ci permettono di studiare le colonne d’acqua, non limitandosi alla superficie. E le differenze a volte sono enormi: alla foce dell’Arno abbiamo trovato in superficie un quantitativo di particelle pari a circa tre-quattro per metro cubo d’acqua, ma a 10 metri di profondità la quantità schizza a 200 particelle! È quindi fondamentale avere strumenti in grado di misurare in modo preciso queste quantità, perché sottostimare la presenza di contaminanti non aiuta a definire dei livelli ambientali di riferimento, da considerare anche in ambito normativo.
Una parte importante del mio lavoro si svolge poi in laboratorio, dove cerchiamo di simulare gli effetti delle microplastiche su alcuni organismi marini (soprattutto invertebrati), per verificare gli effetti sui loro parametri vitali.
Un altro tipo di contaminanti su cui sto lavorando sono i farmaci: il loro impatto in generale è tanto poco conosciuto quanto rilevante, sia per la salute del mare e dei suoi abitanti, ma anche come indicatore della nostra salute… Anche qui è utile fare un esempio: di recente colleghi dell’Università Politecnica delle Marche hanno fatto uno studio sulle cozze del mar Adriatico e del mar Tirreno. Ebbene, il 100% delle cozze studiate contiene almeno un principio attivo di un farmaco all’interno dei tessuti, e nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di benzodiazepine (una classe di psicofarmaci, ndr): insomma, il mare ci sta dicendo che non stiamo proprio tanto bene!
Hai fatto riferimento all’ambito normativo: qual è la situazione, in Italia e in Europa, rispetto alla definizione di criteri chiari sui livelli di contaminanti in mare?
La nostra attività è in parte finalizzata proprio a fornire indicazioni sulle concentrazioni in grado di produrre effetti biologici nocivi, suggerendo alle autorità la definizione di valori limite e livelli di rischio. Il problema è che la legge vuole un numero, ma non è così facile definire dei livelli di rischio oggettivi, soprattutto con composti e sostanze nuove e quindi ancora poco conosciute; inoltre, è importante mettere a sistema diverse informazioni, perché la pericolosità di una data sostanza non è correlata solo alla sua concentrazione, ma può dipendere anche da altri fattori, come per esempio la sinergia con altri contaminanti.
Detto questo, alcune norme già esistono: una direttiva dell’Unione Europea, per esempio, ha da poco vietato l’utilizzo delle microsfere di plastica, mentre l’Italia è l’unico paese in Europa ad aver inserito un riferimento alla pericolosità eco-tossicologica nella legge che regola la movimentazione dei sedimenti durante il dragaggio nei porti.
Ci sono altri progetti di ricerca in cui sei impegnata attualmente?
Un altro ambito su cui lavoro molto è quello degli impatti prodotti dalle attività marittime e dalla navigazione, quindi i danni che le navi possono provocare in mare attraverso le acque di zavorra, le emissioni di fumi, le pitture per le barche e molto altro. In generale, tutte le strutture che entrano in contatto con l’acqua di mare subiscono un processo di degradazione che può essere fisico-chimico (quindi corrosione), ma anche biologico (il cosiddetto fouling): in quest’ultimo caso, possono attaccarsi alle carene delle navi organismi di ogni tipo, dai gusci di cozze ai “denti di cane”. Noi lavoriamo allo sviluppo di pitture anti-vegetative che contengono biocidi e sostanze chimiche in grado di fungere da repellenti per questi organismi, ma che al tempo stesso non siano tossiche per l’ambiente marino.
C’è poi un altro filone molto importante legato al possibile trasferimento di specie aliene tramite le acque di zavorra. Quando le navi in viaggio sono prive di carico, per mantenere l’equilibrio in navigazione spesso caricano acqua in apposite casse di zavorra, che viene poi scaricata all’arrivo. Il problema che questa acqua può trasportare specie aliene per il luogo di destinazione, potenzialmente pericolose o tossiche. Per risolvere il problema, nei prossimi anni dovranno diventare obbligatori sistemi (tipicamente a base di cloro) che trattano queste acque: in passato ho lavorato nel supporto ad aziende che sviluppano questi impianti.
Quanto è importante la collaborazione internazionale e multidisciplinare nel tuo lavoro?
Moltissimo. Da qualche anno faccio parte della delegazione italiana dell’International Maritime Organization (IMO), l’agenzia dell’ONU che si occupa di regolamentare tutto ciò che ruota intorno alla navigazione, con particolare attenzione alle normative in merito all’impatto delle navi sull’ambiente. È un’esperienza molto diversa dallo stare in barca a raccogliere campioni o dal fare esperimenti in laboratorio, ma anche questa dimensione più internazionale e “politica” del lavoro è molto importante.
Quanto alla multidisciplinarietà, è un aspetto sempre molto presente e stimolante. Da qualche tempo sono coinvolta in Liguria nel progetto Raise, finanziato con il PNRR, che punta ad applicare la robotica e l’intelligenza artificiale a diversi settori, dalla salute all’ambiente fino alla gestione dei porti. A volte mi capita di partecipare a riunioni dove l’80% delle persone parla una lingua completamente diversa dalla tua: trovare un linguaggio comune non è facile, ma è una bella sfida.
Quali sono i feedback che hai ricevuto dagli studenti e le studentesse che hanno partecipato ai match di Sumo, soprattutto in relazione all’interesse verso la tua disciplina?
Sicuramente il mio tema di ricerca ha un forte appeal tra i più giovani, che sono fortunatamente molto coinvolti nelle tematiche ambientali. Ho notato che una domanda ricorrente era “a che cosa serve?”, riferita a un determinato aspetto del mio lavoro: il fatto che la mia ricerca possa avere un impatto su eventuali proposte di legge ha molto sorpreso (e rincuorato) i ragazzi, che spesso tendono a pensare che i politici non ascoltino le indicazioni degli scienziati. In realtà è importante far capire che anche chi fa il mio mestiere può dare un contributo importante su questi temi.